Maestro 5° Dan FABRIZIO COMPARELLI
Intervista di eventskarate 31/07/2006
addetto stampa
Karatenews: da quanto tempo pratichi karate? Nella tua vita marziale hai praticato in passato o pratichi attualmente altre discipline?
Maestro Comparelli: Ho iniziato a praticare nel marzo del 1987 presso la società Wadoryu Edera Karate del Maestro Domenico Saitta. È lì che ho vissuto gli anni più belli che un karateka possa desiderare. Nel 2000 ho iniziato a frequentare anche i corsi del Maestro Enzo Collamati, il rappresentate più illustre dello stile wado in Italia. Dal 2000 ho iniziato ad insegnare, con enorme soddisfazione personale, presso la società A.S. New Center Gym di Tor Pignattara a Roma. Pratico quindi da 19 anni, praticamente tutti i giorni per 12 mesi l’anno. Allenarmi è per me uno dei momenti più belli, e difficilmente ci rinuncio. Mi piacciono comunque tutti gli sport, soprattutto giocare e divertirmi con gli amici, quando posso. Però ho dedicato tutte le mie energie al karate.
K: pensi che sia utile conoscere molte arti marziali o è meglio approfondire la conoscenza di UNA arte marziale?
M.: Personalmente credo sia meglio approfondire una sola arte marziale. Riferendomi all’arte che conosco meglio, le sintesi tra karate e altre arti marziali molto spesso vanno a ricercare concetti che nel karate già sono presenti, ma magari non sono stati più studiati o approfonditi a causa di diversi fattori, tra i quali la crescente popolarità del karate e il diverso approccio all’insegnamento. Questo è particolarmente evidente negli stili giapponesi, mentre in quelli okinawensi più tradizionali il karate è ancora un’arte marziale molto completa. Certo, io pratico uno stile che è una sintesi tra il karate shorin di Funakoshi e in parte di Mabuni, e il ju-jitsu di cui Otsuka era Maestro e caposcuola, ma credo che il discorso valga ugualmente.
Leve, prese, proiezioni fanno parte del normale bagaglio tecnico del karate tradizionale (soprattutto okinawense) e solo per esigenze didattiche alcune tecniche o famiglie di tecniche sono state eliminate.
Andare a cercare queste tecniche altrove è inutile. Basterebbe invece ristudiare l’evoluzione e la storia del karate.
K: vedendo un allenamento di aikido, uno di karate, uno di tai chi e uno di capoeira verrebbe da pensare che ogni arte marziale è molto diversa dalle altre… ma sulla base che un uomo ha solo due braccia e due gambe e facendo riferimento alle leggi della fisica che sono uguali per tutti, ti chiedo: ci sono realmente tutte queste differenze tra un’arte marziale ed un’altra?
M.: Se si combatte, è per vincere sull’avversario, questo è lo scopo di un’arte marziale. Ogni uomo ha a disposizione le stesse armi naturali, due gambe e due braccia, per semplificare. Ma credo che ognuno di noi se veramente appassionato e interessato ad un’arte marziale, alla fine si indirizza naturalmente verso l’arte che più gli si addice e più lo soddisfa fisicamente e spiritualmente. Le differenze oggi ci sono, soprattutto perché ogni arte marziale, per esigenze didattiche e di tempo, si sono specializzate verso un gruppo di tecniche, cosa che le rende facilmente riconoscibili e tanto diverse le une dalle altre. Sta al praticante, poi, scegliere la propria strada.
K: Sicuramente quando avevi la cintura bianca ti sarai soffermato a pensare al livello tecnico in possesso delle cinture nere, di coloro che potevano fregiarsi di questo colore importante… e chissà come avrai visto irraggiungibile il tuo Maestro… Quando hai ottenuto la cintura nera sei rimasto soddisfatto del tuo livello tecnico rispetto ai “sogni d’infanzia”?
M.: Che bella domanda! Mi riempie di bei ricordi! Ho preso la cintura nera nel 1989, avevo 15 anni (l’ho presa in gara…). A quell’epoca le cinture nere nella mia palestra erano poche, a me sembravano fortissime, irraggiungibili. Alcune di loro sono state delle figure molto importanti per la mia crescita. Mi hanno incoraggiato, sostenuto, consigliato, spesso istruito e sempre aiutato.
Dei veri senpai. Del maestro non ne parlo nemmeno. Lo veneravo e lo temevo. E gli volevo e gli voglio un gran bene. Ho sempre considerato il mio livello come un work in progress, e sarà sempre così. Ero ancora piccolo e la cintura nera era il mio sogno d’infanzia!
K: un luogo comune degli ultimi anni (almeno in Italia): il karate non è molto efficace e va bene giusto per le donne ed i bambini.
Come risponderesti a questa affermazione?
M.: Con un sorriso. Lo dice chi non pratica karate (ma spesso facciamo lo stesso errore noi karateka quando giudichiamo altre arti o
quando non ci degniamo di imparare qualcosa che può esulare dalle convinzioni che ci fanno comodo). Il karate è un’arte marziale che ha i suoi punti forti e i suoi punti deboli, come tutte le arti marziali.
Richiede tanti anni di pratica per essere padroneggiata. Nella sua apparente semplicità è di una complessità unica. Se il karate non è efficace è colpa dei praticanti, della loro mentalità e del loro scarso impegno, non del karate. Il più delle volte la gente pratica 2/3 ore a settimana, complessivamente per pochi mesi l’anno. Per un’arte marziale completa e complessa come il karate non può essere sufficiente.
K: ha senso modificare le tecniche di karate per portarle in gara? Non sarebbe meglio allenare maggiormente il controllo?
M.: Questa è l’annosa querelle tra fautori del karate tradizionale e fautori del karate agonistico. Io sono una “tradizionalista” come intima convinzione e un appassionato di storia del karate e di kata, ma mi piace anche molto partecipare alle gare, che trovo molto istruttive e stimolanti per i ragazzi, e non solo per loro. Quando si parla di competizioni, si sta parlando di un tipo di karate il cui scopo non è la differenza tra la vita e la morte, ma quello di educare al rispetto dell’avversario, ad una lealtà sportiva che è molto superiore a quella di altri sport proprio perché il rischio di incidente è maggiore che altrove, insomma a tutte quelle caratteristiche necessarie ad un combattente che ha simbolizzato in una gara sportiva il duello mortale che invece caratterizza la vera natura delle arti marziali. Chi
si allena per la gara di kata sta invece maggiormente perfezionando il suo mondo interiore, la capacità di cercare la perfezione e allenare la sua forza di volontà alla ricerca del gesto perfetto, direi quasi illuminante. In questo senso mutare le tecniche ha un senso, e non ci trovo niente di male. L’importante è che le radici storiche del karate non vengano mai dimenticate, che i principi dei kata originali continuino ad essere trasmessi e reinterpretati. Non entro poi nella discussione sull’evoluzione delle tecniche di karate al di là della funzionalità in gara. Le tecniche, così come i kata, non sono mai stati codificati rigidamente neppure ad Okinawa. Anzi ogni maestro adattava i kata che decideva di approfondire secondo i propri principi e le proprie convinzioni, altrimenti come spiegare le enormi differenze tra uno stesso kata all’interno di vari stili, quando le gare di karate ancora non esistevano? La gara è un momento formativo importante, lo sport karate ha dei principi educativi fondamentali che non vanno elusi. Questo era anche il pensiero di illustri personalità del karate “tradizionale” okinawense (come Chojun Miyagi, ad esempio), ed io concordo con loro.
K: sempre a proposito di luoghi comuni… uno degli argomenti di discussione più amati dai karateka è il basso livello tecnico dei karateka, eppure a livello mondiale la scuola italiana è molto apprezzata… dov’è la discrepanza? Forse c’è troppa disparità di livello tra gli atleti agonisti e non agonisti? Oppure il livello è basso per tutti e non è l’Italia ad avere una grande scuola, ma il resto del mondo a fare pena? Oppure ancora non è vero che il karateka medio è di basso livello e sono tutte dicerie per nascondere chissà quali frustrazioni?
M.: Torniamo al punto precedente. Un agonista può risultare tecnicamente migliore di un karateka “medio” per il semplice fatto che si allena almeno tre volte tanto e con metodologie particolari e personalizzate. Se ho capito bene la domanda, si sta parlando di gare federali. Mi pare che nei kata la scuola italiana degli ultimi anni abbia fatto storia. Nel kumite la storia è diversa: i campioni sono meno numerosi e la concorrenza è maggiore. Non direi proprio che il resto del mondo fa pena, anzi ci sono nazioni che stanno emergendo in maniera clamorosa. Certo, come in tutte le cose della vita, anche all’interno delle varie nazioni ci sono alti e bassi dal punto di vista tecnico e del ricambio generazionale. L’Italia in media ha un’ottima scuola, mi pare, e non solo a livello agonistico. Il problema veramente grande, dal mio punto di vista, è che l’Italia è dotata di tecnici di altissimo livello, probabilmente i migliori in Europa, ma la maggior parte di essi non opera nella Federazione ufficiale; non so come le cose vadano negli altri paesi, ma certo in Italia questo è dramma. Il karate è troppo frazionato, e il livello tecnico generale comunque ne risente.
K: il karate di Gichin Funakoshi era educativo. Il karate attuale lo è ancora?
M.: Dipende dal maestro. Funakoshi, a detta dei suoi allievi diretti, era una vera guida spirituale per i giovani studenti universitari. I suoi libri, e ancora di più gli articoli che il Maestro ha scritto (e che purtroppo non sono mai stati tradotti in italiano), sottolineano la ferma convinzione che il karate sia uno strumento per il miglioramento di se stessi. Chi insegna ha l’arduo compito di presentarsi come modello, e non può permettersi né debolezze né però atteggiarsi a superuomo. Spesso il maestro è un modello che influenza in maniera determinante la vita di un allievo. Certi valori non dovremmo mai dimenticarli, come non dovremmo mai dimenticare che lo scopo ultimo del karate è, confucianamente, adoperarsi per migliorare la società. Da qualche parte ho letto che lo spadaccino migliore è quello che non sfodera mai la spada. Credo che questo detto ben si adatti al vero spirito del karate.
K: il karate, come le altre arti marziali, si basa sulla “consapevolezza” di sé e dell’ambiente che ci circonda, nonché sulla gentilezza e sulle buone maniere, in poche parole, sulla disciplina sia fisica che mentale. Perché allora alle gare vediamo così tanto “rumore”? Polemiche, lamentele, a volte anche discussioni infervorate con qualche offesa qua e là sono molto comuni in agonismo. Stiamo incamminandoci, seppur lentamente, verso il mondo malato dell’agonismo calcistico?
M.: Nella maggior parte dei casi, purtroppo sì. Per fortuna esistono realtà dove questo tipo di comportamenti non sono tollerati. Non sono tollerati davvero, non solo sulla carta. L’agonismo, che in sé non va condannato semmai esaltato, deve sempre obbedire alle regole morali del karate. I ragazzi hanno bisogno dello sport karate, e la differenza tra noi e gli altri sport deve essere proprio nella correttezza e nella lealtà. Qui interviene la figura del maestro, e vale quanto detto prima.
K: un’ultima domanda, sempre sulle gare. Non bisognerebbe basare la competizione di karate sul principio di far vincere chi ha meglio compreso l’essenza di quello che fa anche se non ha eccezionali doti acrobatiche, rispetto a colui che ha maggiormente meccanizzato movimenti il cui significato conosce solo superficialmente?
M.: Giudicare un kata è difficile. Valutare l’interiorizzazione di un kata da parte di un atleta è molto difficile, forse impossibile. La gara spesso si svolge nel rumore, gli arbitri sono stanchi, ed è più facile ed evidente far vincere il più atletico. Ma da una parte è anche giusto.
Questo karate è il karate sportivo, e il più forte, il più dotato atleticamente vince. Lo stesso discorso vale anche per il kumite. Il combattimento reale può essere forse un’altra cosa. Ma questa è un’altra storia.
K: L’intervista è finita. Grazie della disponibilità. OSS!
Karatenews http://karatenews.altervista.org/comparelli/intervista_comparelli.htm 31/07/2006