Vestivamo in pigiamino
Eventskarate 12 febbraio 2014
di Bruno Ballardini
Cosa spinge milioni di persone in tutto il mondo a “fare le vasche” in palestra anziché in piscina, tirando calci e pugni a vuoto e mimando combattimenti con avversari inesistenti? E perché si credono invincibili senza aver mai colpito un avversario? È il karate, bellezza!
Questa è la prima puntata di una grande storia corale iniziata verso la metà degli anni ’60 e che continua ancora oggi. Un’enorme epopea di provincia cha ha avuto santi, madonne, angeli e demoni che sono stati fatti oggetto, per quasi cinquant’anni, di un culto segreto di cui non si è accorto nessuno. Perché tutto questo avveniva nelle palestre, moderne catacombe. È la storia di quello che potrebbe essere definito il più grande sport popolare italiano dagli anni del boom economico, dopo il calcio e il ciclismo: il karate. Secondo le federazioni che lo diffondono, il karate conta oggi oltre 50 milioni di praticanti in tutto il mondo. Almeno il doppio se si aggiungono le discipline imparentate, cioè il Tae Kwon Do (la versione coreana) e il Kung Fu (cioè, la versione cinese antica). Nel nostro paese, il karate da solo vanta più praticanti della pallavolo e della pallacanestro messe insieme. La cosa si fa un po’ controversa quando si scopre che in realtà il karate non esiste. È un falso storico. Ovvero, il frutto di uno scippo operato dai giapponesi ai danni della popolazione di Okinawa, terra natale di questa arte. Prima della seconda guerra con la Cina (1937-1945), infatti, al governo ultra nazionalista giapponese serviva un nuovo tipo di educazione fisica in grado di attirare i giovani e infondere loro quelle qualità di efficienza e disciplina utili a farli diventare in poco tempo dei soldati. E così fu adottata questa “arte” locale modificandola in una sorta di ginnastica-marziale. Nel dopoguerra, il karate sarebbe diventato uno sport marziale al pari del Judo e avrebbe invaso il mondo con la versione “industriale” giapponese adatta al mercato di massa sostenuta da un potente marketing, mentre pochi continuarono a tramandare la versione vera artigianale rimasta nelle isole d’origine. Ancora più controverso è il fatto che in Giappone il karate sia visto come una terribile tamarrata. Se dici che fai karate ti guardano con compatimento. Forse ricordano ancora il periodo del dopoguerra in cui gran parte dei club amatoriali era di estrema destra. Di fatto, ai giapponesi non gliene frega assolutamente nulla del karate: da bambini fanno judo (o kendo, quello con la spada finta) e da adulti si appassionano al baseball o, come accade da qualche anno a questa parte, al nostro calcio. Da noi, viceversa, l’esotica disciplina è diventata una moda alternativa ad altri esotismi e nel tempo ha appassionato scrittori come Pier Paolo Pasolini e Susanna Tamaro, cantanti come Enzo Jannacci e Gianna Nannini, attrici come Rosa Fumetto e Claudia Gerini o, all’estero, personaggi dello spettacolo come Steve McQueen, James Caan, Jodie Foster, Jennifer Aniston, Carrie Ann Moss, e poi cantanti come Elvis Presley, Madonna, David Lee Roth, Willie Nelson, e perfino presidenti come Bill Clinton e Barack Obama. Tutti insieme in questo interminabile pigiama party che ancora oggi porta migliaia di persone a pagare per anni una quota mensile pur di provare l’emozione di rifare il servizio militare. Ma poi, altro che guerra! Il karate è profondamente pacifista. Chi lo pratica coltiva la filosofia della Pantera Rosa («Ti potrei uccidere con un colpo solo, ma noi ci alleniamo a controllare i colpi e ci fermiamo sempre prima di colpire!», detto con leggera inflessione francese, n.d.r.). Il che, francamente, è frustrante. Alla lunga ti stressa. Potete immaginare allora quanta tensione possano portare nel mondo oltre 50 milioni di persone frustrate perché costrette a vestire in pigiamino per praticare uno sport che fa finta di essere un’arte marziale. Altro che pace! Sono perennemente incazzati. E se gli dici che praticano uno sport si incazzano ancora di più e manca poco che ti saltano addosso: loro praticano un’antica arte marziale che “fa parte della tradizione” (quale tradizione non si sa) e diffondono “valori guerrieri” (anche in tempo dipace!). Poi però partecipano regolarmente a campionati, fanno gare su gare, fanno corsi di agonismo, formano arbitri, formano istruttori alla Scuola Centrale dello Sport, vanno in pullman a tifare per la propria squadra come nel calcio. Però loro non fanno sport. No, no e poi no. Piuttosto, pur di chiarire meglio la loro posizione filosofica, si spaccano in mille federazioni ed enti di promozione, ognuno con la pretesa di diffondere l’unica versione possibile dell’arte marziale differenziandosi in realtà soltanto per l’interpretazione delle norme arbitrali. E qui casca l’asino. Perché il karate non solo è diviso in mille federazioni, ma anche in stili e sotto stili con movenze diverse, difficili da valutare secondo criteri arbitrali unificati. E poi ci sono quattro specialità agonistiche: kata (una specie di esercizio a corpo libero) individuale e a squadre, e kumite (cioè combattimento) ugualmente individuale e a squadre. E poi c’è una percentuale di arbitri cornuti superiore a quella del calcio. Con una confusione del genere e una faccia di bronzo che è ancora più di bronzo delle facce che si vedono sulle medaglie di bronzo, il karate ha presentato domanda al CIO ben due volte per diventare sport olimpico (“Ma noi non facciamo sport!”). La prima volta è stata negli anni ’80. In quell’occasione è avvenuta la grande beffa del Tae Kwon Do, che ha battuto in volata il karate giapponese presentandosi politicamente più forte e unificato nonostante fosse infinitamente inferiore sul piano numerico. Nel 2013 ha ricevuto la seconda porta in faccia. Toccherà prima o poi farsene una ragione. Mail popolo dei pigiamini bianchi insiste imperterrito ad apporre gli anelli olimpici all’ingresso delle sue palestre. Farebbe di tutto pur di tenerli. Così ci si sente meno inferiori agli altri sport e si rassicurano i futuri clienti che è tutto in regola, che “abbiamo la stessa assicurazione sportiva delle federazioni Coni contro gli incidenti”. Anche se non c’è nessun rischio: gli insegnanti di karate escono da corsi di formazione che per numero di ore non arrivano nemmeno a quelli delle discipline olimpiche più piccole e non è mai successo nulla! Praticanti guidati da praticoni. Quanto al loro riconoscimento ufficiale da parte dello Stato, non esiste: vengono equiparati ai massaggiatori che esercitano ancora senza albo e senza riconoscimento. Come recita Wikipedia, la principale fonte di informazione fra gli insegnanti di karate (oltre al sentito dire), “Il karate non è ancora entrato a far parte delle Olimpiadi, nonostante numerosi tentativi, non avendo mai raggiunto il numero di voti sufficiente nelle decisioni del Comitato Olimpico Internazionale. Questo ha permesso tuttavia al karate sportivo di mantenere ancora una discreta componente tradizionale che ne permette ancora oggi un basilare sviluppo a scopo difensivo”. Fortuna che tutto questo vale solo per il karate sportivo. Perché esiste un altro karate che non si fa pubblicità, praticato solo da pochi intenditori. Quello delle origini. Lo chiamano “karate antico” e si può fare anche nella terza età per coltivare la salute e per “proteggere la vita”. In fondo, che il karate moderno entri alle Olimpiadi è il minore dei mali rispetto all’olimpizzazione del mondo. C’è gente che si batte per far entrare roba come il frisbee, il biliardo, lo skeleton, il bridge, gli scacchi, le bocce e il twirling. Poi il Comitato Olimpico Esecutivo sceglierà in base a 39 criteri, tra cui gli indici di ascolto televisivi, il numero dei biglietti venduti, la politica anti doping delle federazioni delle varie discipline e la popolarità dello sport nei vari paesi. Ma insomma, il karate è uno sport o un’arte marziale? Prima o poi bisognerà decidersi, le due cose sono incompatibili. Nell’attesa, bisognerebbe chiedersi che cos’è che non ha funzionato. Forse il nome? In effetti, anticamente il karate non si chiamava karate. Dev’essere colpa dei giapponesi, hanno scelto un nome che porta sfiga. Perché letteralmente significa “mano vuota”. Forse è per questo che anche dopo l’ultima riunione del Comitato Olimpico se ne sono tornati a mani vuote.
Il libro consigliato
Yamamoto Tsunetomo – Hagakure – Edizioni Mediterranee
La pratica del karate pone in una condizione privilegiata: pur richiedendo meno fatica e meno sacrifici di altri sport, fa credere di essere degli eroi. Da dove viene l’eroismo? Dalla filosofia dei samurai, i leggendari guerrieri del medio evo giapponese. E cosa c’entra col karate questa filosofia? Assolutamente nulla, visto che il karate non è giapponese. Gli ideali guerrieri appiccicati alla disciplina dal 1933 per promuoverla, sono all’origine dell’equivoco piscologico di chi la pratica: credere di essere quello che non si è. I samurai almeno erano gente seria. Ecco un famoso brano con cui si apre l’Hagakure, testo di educazione marziale che risale al 1700: “Ho compreso che la Via del samurai è nella morte. Quando arriva il momento di scegliere tra la vita e la morte, è meglio scegliere subito la morte. Non è poi così difficile, basta solo decidere e andare avanti. (…) È qui l’essenza della Via del samurai: se ci si pone mattina e sera nella disposizione d’animo di essere pronti a morire in qualsiasi momento, e si vive come se si fosse già morti, si comprende l’essenza della Via. Per tutta la vita si riuscirà ad adempiere il proprio dovere senza commettere errori”. Eroico stoicismo? No, qui si parlava semplicemente di fedeltà militare al sovrano. Eppure chi fa karate si sente così: più coraggioso, più nobile, più invincibile degli altri. Ma solo due volte a settimana, nel dopolavoro. Poi, fatta la doccia e tornato a casa, riprende ad essere lo stronzo di sempre.