Giappone il respiro del sole.
Si chiamano komusō.Questi monaci del vuoto, gli esponenti di una setta che ebbe, al suo apice durante l’epoca Edo (1603-1868) oltre 100 templi disseminati in tutto il Giappone, sono una vista non del tutto infrequente nelle espressioni mediatiche moderne di quel paese. Spesso li abbiamo visti, per fare un esempio, nel cinema di arti marziali. Pronti a sfoderare il coltello nascosto nel flauto, oppure la corta spada indossata di traverso dietro la schiena. Eppure chi di noi può dire, veramente, di sapere chi fossero costoro? Portatori di un’oscura novella, o per meglio dire un kōan, (“paradosso”) praticanti di un muto proselitismo. Poiché credenza fondamentale della Fuke-shū, una derivazione mistica del Buddhismo Rinzai del monte Hiei, era che il segreto per raggiungere l’illuminazione non potesse essere in alcun modo compreso, e quindi tanto meno narrato al prossimo o trasmesso in una maniera semplice e diretta. Benché l’atmosfera in cui esso poteva verificarsi, in qualche maniera, potesse venire espressa attraverso un suono. Quello della musica, che in determinati ambienti veniva definita l’essenza della suizen, 吹禅 – meditazione soffiata; in netta contrapposizione con la zazen, 坐禅 – meditazione da seduti. Così nacque quella particolare figura di musico itinerante dotato di shakuhachi (尺八 – il flauto lungo 8/10 di un piede) e la testa coperta dal particolare copricapo in vimini, nominalmente concepito per annullare la percezione dell’Ego, in un’importante espressione esteriore del sentire buddhista. Ma che secondo il popolo serviva, invece, a nascondere la precisa maniera in cui veniva suonato il sofisticato strumento di bambù. E che invece alla fine dell’epoca del Bakufu, il governo dell’onnipotente Shōgun, finì per avere un terzo, ben più inaspettato scopo: nascondere l’identità delle sue spie.Un curioso ed inaspettato binomio che trova la più chiara dimostrazione nell’aspetto tutt’altro che rustico di queste figure itineranti con l’abitudine di chiedere l’elemosina, le quali soprattutto nell’epoca tarda erano spesso dotate di kimono di seta nera e un rakusu, il vestimento simile a un grembiule indossato da tutti i monaci Zen, costruito anch’esso con strisce di stoffe pregiate. Non senza sollevare parecchie critiche da parte della popolazione. Tale opulenza perché, molto spesso, i komusō venivano ordinati tra la classe dei samurai rimasti senza lavoro o un signore feudale (i cosiddetti ronin) dopo il termine della guerra civile, con l’apocalittica ma risolutiva battaglia di Sekigahara (21 ottobre 1600). La nuova elite del clan trionfatore dei Tokugawa, dunque, pensò bene di acquietare questa potenziale massa di rivoltosi e dissidenti, offrendogli in concessione una serie di privilegi. E nel farlo, come molti prima di quel momento, usò il pretesto della religione. Sarebbe tuttavia un errore pensare che la cultura della scuola Fuke-shū abbia trovato la sua massima espressione in quell’epoca, con finalità di sfruttamento per lo più materialistiche. Quando essa trovò terreno fertile in Giappone per la prima volta nel 1254, con il ritorno dalla Cina del monaco viaggiatore Shinchi Kakushin, alias postumo Hottô Kokushi, che nel XIII secolo si era recato per incontrare il 17° discendente del semi-mitico fondatore Puhua. Questa figura monastica vissuta attorno all’800 d.C, facente parte degli allievi del celebre maestro Zen Linji Yixuan, che era famoso per il suo eclettismo e la capacità di comprendere la natura più effimera della disciplina Zen. Estremamente indicativa è ad esempio la storia dell’anziano maestro Panshan Baoji, che al momento in cui seppe che la morte stava per sopraggiungere, chiamò gli studenti affinché qualcuno potesse dipingere un suo ritratto per la posterità. E quando nessuno di loro ebbe il coraggio di dichiararsi all’altezza, Puhua accettò immediatamente, prima di fare una capriola e scappare via. Oppure quella del pranzo formale durante cui Yixuan gli disse “Un capello inghiotte il vasto oceano, un seme può contenere il monte Sumeru” al che l’allievo diede un calcio al tavolo, rovesciandolo. E quando il giorno dopo l’insegnante lo chiamò “rozzo individuo” rispose affermando: “Cieco signore, dove è possibile predicare la raffinatezza nel Dharma (insegnamento) del Buddha?”Il komusō, monaco itinerante senza volto, finì per nascondere spesso un samurai con una missione segreta o una spia di qualche signore della guerra ormai decaduto. I ninja in particolare amavano questo travestimento, che gli permetteva di muoversi indisturbati tra le genti della grande città.Ma forse l’elemento più caratteristico di Puhua sarebbe sempre rimasta la sua campana a mano, che egli era abituato a far suonare quotidianamente per richiamare gli studenti nell’ora delle sue lezioni sul Dharma. Collegata anche alle circostanze miracolose della sua morte: secondo la leggenda, Puhua un giorno andò al mercato per mendicare un mantello da indossare prima dell’arrivo dell’inverno. E talmente era amato dal popolo, che in molti gli offrirono il proprio, ma lui non ne accettò nessuno. Allora il suo superiore nel tempio, il maestro Linji, gli fece costruire una bara e gli disse: “Ecco il tuo mantello.” Puhua lo ringraziò caldamente. Da quel momento per un periodo di tre giorni, il monaco si recò a una diversa porta della città, annunciando che stava per avviarsi alla grande trasformazione (la morte). Il quarto giorno, quando ormai nessuno più gli credeva, chiese ad un viaggiatore di inchiodare da fuori il coperchio della bara. E lì giacque. Quando la gente del mercato accorse lì quindi per liberarlo, o tirare fuori il suo cadavere, ci fu una sorpresa imprevista: aperta la bara, lui non era più lì. E fu in quel momento che il suono della campana risuonò distante, tra le nubi del cielo autunnale. Un sacro strumento che, secondo alcune teorie, sarebbe poi stato sostituito nei secoli dal flauto di bambù, in grado di emettere ben più complesse e raffinate melodie. Nient’altro che una via d’accesso alternativa, sottratta direttamente dalla natura, alla nascosta verità fondamentale del Satori, ovvero l’Illuminazione.
Durante l’epoca Edo tuttavia, in Giappone, ben pochi tra i non iniziati conoscevano le vicende della storia personale di Puhua. Coloro che furono in un primo momento chiamati komosō (薦僧 – monaci della stuoia di bambù) e soltanto a partire dalla metà del XVII secolo komusō (虚無僧 – monaci del vuoto) sollevarono fin da subito un marcato senso di diffidenza ed antipatia. Soprattutto da parte degli hinin (非人 – non umani) la classe più bassa della società, composta da indigenti priva di fissa dimora e per lo più mendicanti, che spesso entravano in diretto conflitto con questi più affascinanti monopolisti dell’elemosina, in grado di attrarre l’attenzione popolana grazie alla musica e raccogliere denaro con la promessa di una vita successiva migliore. Tanto che ci furono numerosi casi di risse, o veri e propri conflitti armati tra i due gruppi, culminanti con la decisione da parte di svariate comunità e villaggi di bandire completamente l’accesso ai membri della setta Fuke-shu. Ma fatta eccezione per questi luoghi, i komusō potevano andare pressoché ovunque, grazie agli speciali documenti che gli venivano concessi dal governo dei Tokugawa. Questo con una doppia finalità: da una parte mantenere dei privilegi per gli ex-samurai che componevano in buona parte i loro ranghi, dall’altra far girare liberamente le proprie spie, senza che dessero nell’occhio in corrispondenza dei posti di blocco. Luoghi presso cui, per provare l’effettiva appartenenza all’ordine, al monaco dal volto segreto veniva chiesto di suonare una honkyoku (本曲 – composizione originale) tra le più difficili, generalmente Shika no Tone – “Il richiamo distante del cervo”. Così gelosamente custodito era il segreto per suonare abilmente lo shakuhachi, il flauto di bambù, che si riteneva nessuno potesse riuscirci senza aver effettivamente studiato in uno dei templi ufficiali della Fuke-shu.Questo raro esempio di notazione musicale di un pezzo honkyoku mostra un impiego decisamente inusuale, e soprattutto moderno dei due alfabeti sillabici giapponesi, hiragana e katana. Il più delle volte tali note venivano tramandate oralmente, principale ragione per cui molta della musica dei komusō è andata ormai perduta.
Di voci ne giravano molte: si diceva che i monaci del vuoto fossero spie, assassini. Che potessero evocare gli spiriti dei morti grazie al suono del loro flauto. Nelle xilografie del mondo fluttuante, principale repertorio immaginifico dell’epoca Edo, i komusō iniziarono ad apparire in circostanze mistiche, talvolta a fianco o persino alleati dei mostruosi yōkai (mostri, fantasmi). Ed è in tale guisa che li ritroviamo, occasionalmente, nei fumetti e nei videogiochi della cultura globalizzata di matrice nipponica, dove il loro aspetto impersonale li rende dei perfetti antagonisti delle più surreali circostanze. Nel frattempo la loro musica, successivamente alla Restaurazione dell’imperatore Meiji (1869) era stata forzatamente scardinata dal contesto di appartenenza originario, diventando una forma di intrattenimento per lo più secolare. E demonizzando ulteriormente i suoi creatori. Questo perché uno dei principali obiettivi dichiarati dei nuovi oligarchi che avevano scacciato via i Tokugawa, con aspro utilizzo degli strumenti bellici, era ripristinare la cultura nazionale, scacciando via tutte le influenze provenienti da fuori. Tra cui, per l’appunto, il buddhismo Zen. Se oggi conserviamo, almeno in parte, la musica di quei tempi, è merito principalmente del musicista Kurosawa Kinko I, che nel XVIII secolo viaggiò per il paese mettendo su carta i 36 honkyoku che oggi costituiscono l’intero repertorio classico per flauto shakuhachi.