
Varone Ciro
Ci sono quelli che cercano un maestro e quelli che pensano di averlo trovato. Ma poi ci sono quelli che, pur avendolo davanti, non lo scelgono davvero.
Se entro in un dojo, ma non accetto di mettere la mia esperienza nelle mani di chi mi guida, ho davvero scelto un maestro? Se credo che la vita sul tatami sia solo un rituale separato dalla realtà quotidiana, sto davvero praticando un’arte marziale o solo un gioco di forme?
Un maestro non è solo un dispensatore di tecniche. È un ponte tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare. Se non gli riconosco il diritto di modellare la mia esperienza, allora non sto imparando, sto solo raccogliendo gesti vuoti, senza comprenderne il senso.
Eppure, molti praticanti vivono questa contraddizione senza rendersene conto. Eseguono kata, apprendono proiezioni, ripetono movimenti… ma appena escono dal dojo, tutto questo svanisce. Perché? Perché non hanno mai permesso a quell’insegnamento di trasformarli davvero.
Pensare che il dojo sia solo un luogo di allenamento e che la vita reale sia un’altra cosa è la più grande delle illusioni. L’arte marziale non è uno sport, non è un passatempo: è un modo di essere. Ogni tecnica imparata è una lezione di vita, ogni caduta un’opportunità di crescita. Se pratico solo per migliorare i miei colpi e non me stesso, sto tradendo l’essenza della disciplina.
E poi c’è l’errore più grande: credere di aver già capito tutto. L’allievo che pensa di aver raggiunto la vetta smette di salire e, senza accorgersene, inizia a scivolare indietro. L’umiltà è la prima e ultima lezione di ogni via marziale.
Chi impara davvero non è colui che imita, ma colui che si affida. Chi ha il coraggio di mettere in discussione sé stesso. Chi accetta di essere trasformato.
Senza questo, il maestro è solo un’ombra. Il dojo solo una stanza. E la via… una strada che non porta da nessuna parte.