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Quello che i kata (e il bunkai) possono (e non possono) darci

eventskarate 07 novembre 2012

Sergio Roedner

I miei due post sul kata e sul bunkai hanno suscitato un notevole volume di interventi, alcuni ottimi, altri pessimi.

Mi concedo una replica qui, invece di frammentarla in risposte individuali che potrebbero risultare involontariamente offensive per chi la pensa diversamente.

1) Sono convinto fermamente che i kata come li conosciamo adesso non servano a combattere, e metterei la mano sul fuoco che neanche Choku Motobu, Anko Itosu, Itoman Bunkichi e gli altri “bad asses” di Okinawa, quando facevano a cazzotti nei loro memorabili duelli, usassero spezzoni di Naifanchi, Annan, Chinto o come si chiamavano allora i kata. Quei kata, ovviamente, contenevano tutte le tecniche di calcio, di pugno, le parate, i movimenti e forse anche le leve e le proiezioni del repertorio del karate di allora: in questo senso, ma solo in questo senso, erano utili, in quanto “repertorio” di tecniche per la sopravvivenza. Se io imparo a memoria il Proemio dell’Iliade o il monologo dell’Amleto non posso utilizzarli in una lite condominiale o in una dichiarazione d’amore, ma in certo senso mi forniscono un prontuario di espressioni, figure retoriche, modi di dire che mi torneranno utili in altre occasioni in cui dovrò persuadere, convincere, commuovere.

2) Conoscere le applicazioni reali (o almeno alcune delle applicazioni possibili) delle tecniche dei kata è importantissimo per non trasformare l’esecuzione di quei kata in una sequenza di gesti senza senso e per dare “realtà” a quelli che sono stati concepiti come combattimenti, sia pur stilizzati, contro avversari reali. In questo senso mi rendo conto che certi movimenti dei kata sono stati modificati nel tempo, altri sono stati concepiti come difese da una spada, da un bastone, eccetera, ma non mi sembrano difficoltà insormontabili. Detto questo, mi sembra che il tempo da investire nell’applicazione di un kata sia quello necessario per far comprendere la portata offensiva e difensiva delle sue tecniche.

3) Per combattere, il karate ha gradualmente elaborato delle strategie autonome dai kata meritevoli di attenzione, sia pure nella consapevolezza dei loro ovvi limiti. Tutto mi fa pensare che a Okinawa si usasse il makiwara e altri strumenti rudimentali per irrobustire il corpo e poi…botte da orbi, probabilmente con un repertorio di colpi più vasto e letale di quello disponibile oggi (ma mancava ancora gran parte delle tecniche di calcio), fidandosi della durezza dei propri arti e (se non si combatteva for real) della robustezza del corpo dell’avversario.Le cicatrici sul corpo del tanto vituperato “modernista” Itosu dimostrano che il controllo dei colpi era inesistente o molto approssimativo. Io credo che il jiyu kumite da palestra possa costituire per noi l’equivalente del leggendario “ude kake-shi” di Okinawa, specie se integrato dalla conoscenza della lotta a terra. Purché non si dimentichino il makiwara e il sacco per soddisfare alla massima “mani e piedi come spade”.

4) Non escludo che qualcun altro abbia coltivato in gran segreto o inventato o resuscitato un sistema integrato kata-bunkai-combattimento: può interessarmi a livello culturale,ma personalmente mi fido di quello che pratico da quarant’anni e del modo in cui ho imparato a “comporre” liberamente nel kumite l’alfabeto, la grammatica e la sintassi del karate Shotokan apprese nel kihon, nel kata e nelle varie forme di kumite preparatorie al combattimento libero.

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