KARATE ED OLTRE… LA SUPERSTIZIONE

Eventskarate 29 agosto 2013

Carlo Lembo

Vorrei intitolare così queste riflessioni intorno ad alcuni problemi che emergono fin troppo spesso nella pratica “moderna” del Karate, parafrasando il titolo di un testo al quale sono particolarmente affezionato; gli appassionati di vecchia data individueranno senza bisogno di ulteriori precisazioni di quale testo io stia parlando; problemi che, credo, sentiamo un po’ tutti sulla pelle,

chi più  chi meno, per il  semplice fatto di essere, ovviamente, figli della nostra epoca. Credo che confrontare queste mie considerazioni possa aiutarmi a scoprire, in esse, inevitabili lacune ed inesattezze, od errori, od, ancora, ad aggiungere integrazioni, attraverso i commenti di altri appassionati all’argomento, che ringrazio in anticipo. Perché ho scelto questo titolo? Cercherò di spiegarmi. Nel testo “ Il linguaggio degli uccelli”, l’autore ( Renè Guenon ) propone una interessante etimologia del termine “superstizione”: lo fa derivare dal latino (  riporto per completezza )“quod superstat”, ovvero ciò che sopravvive a se stesso; “vale a dire, in una parola, lettera morta”,  prosegue l’autore. Si riferisce a quei simboli, o riti religiosi, che vengono usati o praticati anche dopo che il loro significato profondo è andato perduto nel tempo, utilizzandoli come forme genericamente propiziatorie, o magiche, ma non più intese e vissute nel loro autentico ed originario valore. Sono, quindi, pratiche nate morte, se le guardiamo in rapporto a cosa originariamente erano chiamate a significare. Oggi, in una cultura che oramai ci ha disabituati ai picchi estremi del Bene e del male, e ci propone, tranne rare eccezioni, solo il bene ed il male minori, ( come acutamente notava Roberto Calasso , direttore editoriale della casa editrice “Adelphi” nel suo testo “La rovina di Kash”, riferendosi all’impoverimento spirituale ed etico del nostro mondo “moderno”), noi stiamo, anche a mio povero avviso, perdendo il senso di quasi tutto ciò che facciamo. Sto parlando dell’ indirizzo predominante nella cultura del nostro mondo “occidentalizzato”, sto parlando della sottocultura del relativismo, sto parlando di fenomeni come il cosiddetto pensiero debole, e del dilagante vuoto di valori, vissuto addirittura con orgoglio.  Tranne rare eccezioni. Torniamo al nostro Karate. Noi abbiamo avuto la fortuna di ereditare un Karate ancora molto vicino alle sue origini spirituali, tanto nelle forme, quanto, più raramente, nei significati;  questo è avvenuto perché il Giappone è rimasto in un relativo isolamento culturale protrattosi fino al XIX° secolo; diciamo che, facendo un paragone, è come se ci fossimo ritrovati gli antichi cavalieri medioevali ( e tutta la cultura che li ha forgiati ) ancora attivi qui in occidente fino alle soglie del XX° secolo. Questo fortunato evento della vicinanza alle origini credo ci aiuti, quanto meno, a capire, come sta avvenendo ora in Giappone, che la pratica e lo Spirito autentico del Karate ha subito e sta tuttora subendo una pericolosa deriva causata da molti fattori, alla quale molti ritengono che urga porre rimedio. I suddetti fattori sono comunque riconducibili, ritengo, a quel vuoto di cui parlavamo. Ecco allora il punto in cui reputo presente ed attivo il pericoloso meccanismo: siamo affascinati da una pratica che, nelle forme, trasmette ancora una bellezza abbagliante, sentiamo che ci carica profondamente di un qualcosa di non ben definito, sentiamo il vantaggio che ne traiamo; avvertiamo tuttavia che sotto c’è molto, ma molto di più. Lo avvertiamo dalle testimonianze storiche, scarne ma precise ed univoche, sulle modalità quasi sovrumane con cui i Grandi Maestri del passato praticavano quest’arte, ed un buon numero di noi lo avverte anche direttamente sulla propria pelle, non riuscendo tuttavia a raggiunger quel “molto di più”. Ecco il pericolo ,che io ravviso, del trovarci a vivere, chi più chi meno, quest’Arte Marziale con uno spirito di superstizione: “Quod superstat”. Forme oramai troppo svuotate di contenuto. Ecco, verosimilmente, la distanza che ci separa dai Samurai. Insomma, ci si chiederà, a questo punto, quale possa mai essere questo contenuto che io ritengo mancante, che creerebbe tale distanza. Proverò ad esprimere il mio “sentire”, prima ancora del mio pensare, a proposito di tale argomento.                                                                                                                                                                     Ebbene, un amico, a me  straordinariamente caro, attualmente docente  di antropologia culturale alla  Pontificia Università Gregoriana di Roma, il prof. Mario Polia, scrisse ben 30 anni fa un fantastico testo, intitolato -“ FUROR” guerra poesia profezia – ed. Il Cerchio-Il corallo, dal quale vorrei estrarre poche righe da sottoporre all’attenzione dei mie dodici lettori, tanto per dare un’idea, decisamente più chiara di quanto sia capace di renderla io, su quanto ci potesse essere di “pensiero debole” nel “Pensiero” che ispirava l’agire di genti purtroppo distanti da noi, seppur, forse, non irrimediabilmente. Cito dall’introduzione:

“Questo studio è dedicato all’analisi di quel particolare stato di coscienza che presso le culture arcaiche è contrassegno inequivocabile dell’irruzione del sacro nel poeta, nel veggente e nel guerriero. Spesso poesia e veggenza coincidono e tanto più tendono a coincidere quanto più si rimonta lontano nel tempo alle radici delle Tradizioni. Ed entrambe sono manifestazioni del divino che inonda con la sua potenza il cuore del vate. Ma esistono anche misteriosi e profondi rapporti tra la poesia e l’attività guerriera in epoca arcaica così che, presso i Celti, si potè affermare che “ il bardo ed il guerriero sono prossimi tra loro”. I germani designarono col nome di òdr questo stato di intensa esaltazione mistica, di trascendimento della coscienza ordinaria, nel quale emergono particolari facoltà quali la veggenza e l’invincibilità (……………..)” piu avanti l’autore aggiunge: “ Il Dio ispiratore dell’òdr è, per eccellenza, Odino: il suo nome è formato sulla stessa radice, ed Adamo da Brema Traduce Odino con furor.” Ancora più avanti nel testo: “ La manìa  greca, il menos e l’enthousia, traducibili come (furore divino), (furore dell’animo) ma anche (impeto e furore guerriero), ( ispirazione divina), presentano molte affinità con il furore germanico e rimandano alla stessa visione del mondo: l’origine della sapienza e della potenza – la sapienza si manifesta come potenza – non è umana, intendendo come “umana” la condizione dell’uomo decaduto, ma divina”. Prima di continuare con la seguente citazione dallo stesso testo, desidero specificare che non intendo proporre un ritorno al paganesimo o ad antiche fedi, ma vorrei unicamente sottolineare questo legame  che ritrovo sempre presente fra pratiche “alte” e sentire “alto”, e penso che non sia un caso. Continuo, estraendo da pag.17 : “La passione per il duello e per l’exploit personale rende il combattente germanico – e celtico – molto simile all’eroe dell’epos omerico. Il BOSL  ha colto a pieno il senso della virtus germanica interpretandola non solo come valore in battaglia ma piuttosto come un carisma, come forza magica d’origine sacra, come un fluido particolare che agisce nel combattimento. Si noti, per inciso, che a ben vedere la manifestazione dell’òdr non differisce affatto dalle modalità di esplicazione del ki nelle arti marziali giapponesi ( calore sovrumano; grido che paralizza l’avversario; forza che non appartiene alle sole possibilità muscolari, ecc.).  In entrambi i casi si tratta del risveglio di una potenza spirituale agente sulla coscienza e nel corpo. Nei guerrieri odinici berserkir e ùlfednar il furore si manifestava come invincibilità ed invulnerabilità.” Mi sia permesso a questo punto, per alleggerire lo spirito di questa breve trattazione, riportare alcune parole romanesche di tono scherzoso, stampate sulla maglietta di un mio amico: “o t’elevi, o te levi”. Cioè, non mi sembra coerente giocherellare con fenomeni culturali come  il pensiero debole, che liquida due millenni di inarrivabili valori cristiani vissuti non da quattro pensatori di mestiere, ma professati maturati nell’esperienza di interi popoli, con la frase di Vattimo che “ identifica nell’idea cristiana di incarnazione di Dio nell’uomo, un’avvisaglia dell’idea di porosità, indebolimento e consunzione dell’essere”, ( sic!) lamentandoci poi che i nostri Padri agissero, in qualsiasi loro attività, ad un’altezza e ad una distanza siderale da noi. Chissà come mai i graffiti preistorici scatenano negli attuali artisti un’ammirazione estasiata.  Fine dell’esempio. Proviamo ora a compiere un salto nella spiritualità cristiana, che ci mette a disposizione una pratica ( la contemplazione ), che presenta analogie con quell’attività interiore che, negli esempi sopra riportati, tanti frutti ha generato nel cuore e nell’animo umano e nell’agire dell’uomo attraverso i secoli ed i diversi culti. Da Wikipedia:

“La contemplazione nel Cristianesimo occidentale

Nel Cristianesimo occidentale la contemplazione è associata al misticismo ed è legata alle opere di mistici quali Santa Teresa d’Avila e San Giovanni della Croce. La contemplazione è tenuta in grande riguardo soprattutto nel Cristianesimo Cattolico, il cui grande teologo San Tommaso d’Aquino scrisse: “È necessario per il bene della comunità degli uomini che ci siano persone che si dedichino a una vita di contemplazione”. Uno dei suoi discepoli, Josef Pieper, commentò: “Perché è la contemplazione che preserva, in seno alla comunità degli uomini, la verità che è al contempo priva di utilità e parametro di ogni possibile utilità; così è la contemplazione che mantiene il vero fine in vista, dando significato a ogni atto pratico della vita”.

La contemplazione nel Cristianesimo ortodosso

Nel cristianesimo orientale la contemplazione è sinonimo di visione divina e, in quanto tecnica, è espressa dalla tradizione ascetica dell’Esicasmo. L’esicasmo, o vita nella quiete, comporta la pratica dell’orazione monologica, ossia di un’orazione composta da una semplice frase. Questa preghiera è recitata prestando attenzione al significato delle parole e senz’alcun uso della fantasia in modo da fare in modo che anche i propri ritmi vitali, il respiro e il battito cardiaco, la esprimano. Con questa preghiera – che non implica assolutamente un’attività mentale di concentrazione – l’intelletto intuitivo non è occupato da nulla che lo distragga e, purificato, discende nel centro più profondo della persona (il cuore). (………….) A quel punto l’uomo può avere l’intuizione della presenza divina in sé ( avendo realizzato, aggiungo io, l’unità di mente e di cuore ). Il più grande difensore e diffusore della preghiera esicasta è stato Gregorio Palamas.. “                                                                                                                                                     Vorrei solo aggiungere, a parziale integrazione del testo sopra riportato, che i tesori di tale pratica fanno ormai parte dell’intera Chiesa, senza divisioni fra orientale ed occidentale. La mia sempre poverissima opinione, a questo punto, è che il contenuto mancante che ci separa da una pratica “alta” di qualsiasi arte, o artigianato, o di qualsiasi altra attività umana, sia semplicemente l’assenza nella nostra cultura, ed in buona misura dentro di noi, di una spina dorsale etica, di un centro di valori unificanti, di una fede senza necessità di dimostrazioni, che, neanche a dirlo, gli antichi bushi possedevano. Qualcuno  sente la necessità di dimostrazioni che comprovino l’affetto ricevuto dalla propria madre? Quindi esiste un qualche “sentire” che non necessita di dimostrazioni! Torniamo ancora al nostro Karate. Noi abbiamo la fortuna di aver colto, seppur di riflesso, il fascino di questa disciplina, come altri, parimenti, hanno colto il fascino di altre. Penso che ci possa tornare utile utilizzare questa sensibilità come stimolo per scavare più a fondo, cercando di rimuovere quella pietra d’inciampo che ci separa da una pratica alta, da una contemplazione in movimento, o, meglio, da una meditazione in combattimento: un combattimento, com’è ovvio, innanzitutto contro le nostre stesse negatività ( Invidie, rancori, vendette, rabbie, avidità, ira, etc. etc.). Innanzi tutto occorrerebbe, a mia avviso, ripristinare negli allenamenti ( che sarebbe più corretto chiamare celebrazioni marziali, in quanto sostanzialmente rituali) la pratica del raccoglimento nella meditazione e contemplazione, cosa che non è stata inventata da Carlo Lembo, ma è sempre esistita nelle “celebrazioni” del rito dell’’arte marziale negli antichi praticanti. Sappiamo che in Giappone si chiama MOKUSO. Ma occorrerebbe farla sul serio, raccogliendosi ciascuno nella parte spirituale e più pura di se stessi, auspicabilmente riferendosi tutti alla stessa spiritualità, ma non necessariamente. Dopo di che, occorrerebbe chiederci perché ed in cosa questa nostra disciplina ci renda migliori. Particolarmente noi del Wado Ryu, disponiamo di una tecnica dotata di una naturalezza molto avanzata, quindi di una particolare vicinanza a leggi dinamiche naturali ed universali. Su queste mi sembra che occorra concentrarci, riflettendo come i principi fondanti siano pochissimi: agasu, inasu, noru, lasciar correre, schivare, avvolgere, mentre le applicazioni sono sterminate. Voglio permettermi di dire una  ( forse solo apparente ) bestialità: pensiamo all’arte giapponese di disporre i fiori, o all’arte, sempre giapponese, della calligrafia: un solo tratto di pennello, esprimeva una vita di significati. Per noi giocano tre principi: basterebbero addirittura, qui lo dico e qui lo nego, perplesso io per primo di ciò che sto scrivendo, tre tecniche, od addirittura una sola che le compendi tutte ( come effettivamente esiste nel Wado), ripetuta costantemente, con la giusta respirazione, rilassamento, concentrazione, urlo, equilibrio, imperturbabilità, nobile distacco dal risultato, immedesimazione nel corpo dell’avversario percependone i movimenti come propri per poterli anticipare, concentrazione puntiforme delle energie nel kime, percezione non convenzionale dello spazio e del tempo raggiunta con la meditazione e la contemplazione, assunzione delle energie dal terreno seguita da  un accumulo nel tanden, e si potrebbe continuare per pagine intere. Pensiamo un attimo all’arte tradizionale giapponese del tiro con l’arco, il Kyudo:  siamo in presenza ,sostanzialmente, di un solo gesto: il rilascio della corda che spingerà avanti la freccia. Eppure, di  quanta preparazione, di quanta concentrazione, di quanto studio interiore necessita! Il Karate, mi chiedo, è poi così differente? Anche se le situazioni che possono generarsi in uno scontro  ( o, per meglio dire, in un incontro ) reale sono le più disparate, tanto che persino la nuca può fungere da arma, pur tuttavia, nelle linee essenziali, gli obiettivi sono, potremmo dire, altrettanto limitati. Se pensiamo ad un elemento insito nel DNA del karate, cioè lo scopo di difendersi a mani nude contro avversari che a mani nude non sono, anzi, sono probabilmente corazzati  con armature o protetti dalla loro stessa mole od entrambe le cose, allora si fa evidente la scarsità di alternative del karateka; occorre colpire essenzialmente e  fulmineamente le zone vitali scoperte dell’avversario: occhi, gola, genitali usando preferibilmente, per colpire, quelle parti del nostro corpo più lontane dai nostri centri vitali e più vicine a quelli dell’avversario, e che possono essere scagliate alla massima velocità senza patire troppo nell’impatto: le nocche delle mani del dito indice e medio (seiken) scagliando un pugno, e la parte della pianta del piede all’altezza dell’avampiede ( koshi ) scagliando un calcio. Le difese obbediscono tutte alla stessa regola del nagashi,  cioè deviare, fluire e non impattare forza contro forza. Da questa impalcatura seguono a cascata tutte le altre applicazioni. Per le proiezioni, è chiaro che seguono la regola della coppia di forze: se applico un ashi barai, è ovvio che è meglio che io proietti la parte opposta del corpo del malcapitato verso la direzione opposta all’ashi barai, perché egli perda l’equilibrio ben benino. Ma anche queste, sono applicazioni intuitive della regola generale del baricentro, che è già contenuta in un corretto tsuki, che, come è noto, può contenere in se anche un’ottima applicazione del nagashi, che è alla base delle difese. Insomma, in un solo colpo può esserci tutto, il resto ne deriva spontaneamente a cascata. Il problema è eseguire bene, ma veramente bene, la tecnica “madre”. Non per nulla il M°Otzuka ha sintetizzato in nove kata l’essenziale della sua disciplina, a fronte di altri stili che ne contano decine e decine. Credo fosse proprio una sua indicazione indirizzata, magari solo in astratto, verso questo estremo riassunto di cui sto parlando. Il resto delle tecniche verrebbero intuite poi dal praticante per semplice conseguenza logica, e scaturirebbero naturali senza neanche troppa riflessione, una volta che ci si sia appropriati degli elementi fondamentali. Anche in questo caso, direi che si potrebbe invertire il ragionamento comune: normalmente si praticano una discreta varietà di tecniche, e si ritiene che ciascuna di esse contenga un frammento del cuore della disciplina, il che, di per se, corrisponde al vero. Dopo essersi sufficientemente appropriati di tutte o molte di tali tecniche , si tenta finalmente l’operazione di collage, che porterà il praticante alla ricostruzione della disciplina nella sua interezza, anche se, ovviamente, relativa al livello raggiunto. Prima di tutto, c’è da considerare che le tecniche così acquisite non verranno quasi mai applicate tali e quali in uno scontro reale  ma saranno adattate sempre a seconda dei casi concreti. In più, il ragionamento, probabilmente, andrebbe invertito, come stavo dicendo: il cuore della disciplina risiede già tutto in una sola tecnica: per esempio, nel wado ryu potrebbe essere una difesa con schivata laterale che genera senza soluzione di continuità un attacco ad esempio di tsuki, al massimo seguito anch’esso da un gheri generato con naturalezza sempre dalla stessa azione di difesa vogliamo esagerareed aggiungere una leva articolare ed una proiezione? E poi stop.  Un bel kihon kumite potrebbe adattarsi splendidamente allo scopo.  Questo potrebbe essere il rilascio della corda del nostro arco. Se si lavorasse su questa base con la dovuta attenzione ad ogni particolare, compresi tutti i gesti e le disposizioni che precedono e seguono l’azione, ( vedi le lotte fra animali in natura), allora, ed ecco il punto essenziale del ragionamento, tutte le altre tecniche sarebbero generate ed illuminate spontaneamente da questo “sole” centrale. Dopo aver lavorato così, si potrebbe praticare timidamente qualche accenno di combattimento libero, diciamo creativo, con molta circospezione, dato che si inizierebbe già a toccare il limite vita-morte, stando bene attenti a non uscire mai dal solco tracciato dalla pratica madre. Dato che tutto ciò risulta a volte difficile da applicare anche se ( vedi altre discipline, soprattutto giapponesi) l’efficacia potrebbe essere notevole, allora ci si aiuta  illuminando quegli aspetti che non si riesce ad metter a fuoco altrimenti, avvalendosi dell’espediente di allargare il numero e la varietà delle tecniche da ripetere in fase di studio, al fine di , diciamo così, di sminuzzare e rendere più facilmente assimilabili  i principi base,  cosa che anche io, comunque, faccio e continuerò a fare, poiché è un sistema che comporta facile applicabilità nelle nostre condizioni e ritmi di vita e mentalità, con pregevoli risultati, ma anche, probabilmente, con i suoi limiti. Sto scrivendo proprio per studiare, insieme ad altri, una eventuale correzione di rotta. Molti sono portati a credere che il percorso, più scarno ed austero del nostro, che potrei denominare  “a  tecnica singola” accompagnata da un lavoro interiore, come più sopra dicevo, pur comportando (come credo) un apprendimento ottimale, probabilmente richiederebbe  una speciale dedizione del praticante, anche in termini di tempo quotidiano da dedicarvi. Non ne sono così sicuro, poiché un’applicazione che sia quotidiana, anche relativamente breve, unita ad una forte motivazione e concentrazione, può dare risultati inaspettati. Ogni giorno un tratto, come dicevano gli antichi romani. Sono più portato a credere che lo sminuzzamento di cui parlavo sia un espediente necessario alla nostra forma mentis molto occidentale, disabituata a scavare  minuziosamente nel singolo particolare, piuttosto che un espediente per rimediare alla scarsità di tempo disponibile. Se riflettiamo sul fatto che i nostri Padri Fondatori del Wado Ryu praticavano per ore, fino a sfinirsi, una data tecnica o al massimo un dato kata, e limitavano poi i veri duelli a casi sporadici, poiché erano per lo più duelli cruenti, dovremmo ricavarne di che meditare, a proposito del discorso della tecnica singola. Comunque, già sapere o ipotizzare ciò che ci manca, può rappresentare un passo avanti, non si sa mai in futuro… Comunque, sto formulando solo una ipotesi, sull’onda di  un mio particolare “sentire”. Ho parlato di “ appropriazione” degli elementi fondamentali, ma sarebbe più giusto dire “riappropriazione”, poichè ognuno nasce con un bagaglio già formato, che  tende poi in buona parte a svanire con la crescita: basti pensare alla capacità di nuotare che dimostriamo fin dai primi istanti di vita, e che perdiamo strada facendo, insieme a mille altre cose. Spesso vediamo nei bimbi delle movenze di una naturalezza e di una efficacia disarmante, che noi facciamo fatica ad emulare, ma che ci appartenevano per nascita. Vedi anche a tal proposito i gesti elegantissimi ed essenziali nel mondo animale.  A questo punto, prima di approfondire il concetto del recupero del perduto, vorrei sottolineare il fatto che una pratica della nostra disciplina che tenda al raggiungimento degli obiettivi finora elencati, ritengo che non possa essere che essenzialmente semplice, alla portata di qualsiasi persona di buona volontà. Non si tratta di istituire conventicole iniziatiche a sfondo cervellotico, o di conseguire lauree in filosofia con specializzazioni in metafisica, ma di eseguire con umiltà e semplicità quei pochi gesti, nella dovuta concentrazione, raccoglimento, e quanto finora elencato, senza dimenticare la meditazione e, secondo me, anche la contemplazione, e senza stancarsi nella ripetizione, in quanto ogni ripetizione nel giusto spirito, rappresenta un mattoncino nell’edificio. Tutte cose semplici: le cose semplici ed umili sono quelle che hanno sempre funzionato a questo mondo, ed anche questa affermazione credo non necessiti di dimostrazioni. Il problema è che costano fatica e convinzione. Vorrei ancora aggiungere qualcosa a proposito del gesto fulmineo nell’azione del karateka. Non intendo certo tessere un elogio della lentezza tanto per andare contro corrente, ma ritengo che la velocità sia un fattore parzialmente relativo ,nel senso che, come prima considerazione, per quanti miglioramenti si realizzino, vi sono limiti invalicabili nella fisiologia umana, quindi non potremo mai essere veloci come la lingua di un camaleonte nell’atto di ghermire un insetto. Come seconda considerazione la velocità di un ventenne non può essere paragonata a quella di un cinquantenne. Eppure i risultati più stupefacenti nelle arti marziali non mi sembra siano sempre stati appannaggio degli “under 21”.  Penso invece che il gesto possa risultare rapido  ( nei limiti del possibile) quando è essenziale, elegante e naturale, ed in questo il wado ryu ci insegna moltissimo. Inoltre, l’efficacia credo sia legata ad una esecuzione dotata di tutte quelle qualità di cui prima parlavo, quando affermavo che se ne potrebbero riempire pagine intere. Non c’è rapidità che possa competere con un occhio interiore che anticipi, intuisca, e che, inoltre, percepisca tempo e spazio in modo non convenzionale. Se ci riflettiamo, noi nello stato di sogno percepiamo a volte pochi secondi come fossero lunghi giorni o viceversa, e così anche nei confronti delle coordinate spaziali; questo ci fa pensare che siamo predisposti ad esperienze simili, infatti vi sono pratiche arcaiche , presso alcuni popoli, che si prefiggono tali obiettivi, non solo per scopi “marziali”. Diceva Wolfgang Amadeus Mozart, che era pur sempre un uomo come noi nonostante a volte non sembri, che, quando componeva una sinfonia, la pensava tutta contemporaneamente: tutte le note insieme, e non una per volta. Cosa ci suggerisce ciò, a proposito dei duelli di samurai con avversari multipli, percepiti come uno alla volta? Desidero, per ultimo, toccare l’argomento della utilità, anzi della indispensabilità a mio avviso della pratica di una disciplina o di un’arte, qualunque essa sia. Inizierei intanto con il capovolgere la questione: l’uomo, come e più di ogni altra creatura esistente nasce come una vera opera d’arte. Basta osservare e studiare un neonato. La domanda allora è: perché in un dato momento, con la crescita, smettiamo  ( chi più ci meno, come sempre ), di comportarci da opera d’arte vivente? Gli animali non smettono mai, infatti sono sempre favolosamente belli. Provo a dare una risposta: rimanendo nell’ambito geografico del Giappone, possiamo osservare il seguente fatto: di fronte all’ infernale devastazione provocata dai due ordigni atomici sganciati su due importanti città giapponesi, tutto il mondo è rimasto attonito nell’osservare la compostezza, la dignità ed il senso di profonda civiltà con cui i sopravvissuti hanno affrontato la catastrofe fin dai primi istanti seguenti la deflagrazione. Quindi, ogni frangente della vita è adatto per praticare tali valori. Certamente, non appena le circostanze lo permettano, ogni giapponese preferirebbe coltivare queste virtù all’ombra di un sereno giardino zen, vestito con un tradizionale kimono dalle fantastiche tinte: anzi, tale condizione ne favorirebbe senz’altro lo sviluppo e l’approfondimento. Ognuno di noi, pur non avendone sempre la possibilità, tende a ricreare intorno a se tale condizione, quanto più possibile edenica. E’ una tendenza connaturata all’uomo. Padre Massimiliano Maria Kolbe, frate francescano conventuale, morto vittima di una brutalità demoniaca, offrì la propria vita per salvare quella di un padre di famiglia, e morì cantando salmi nel bunker della fame. Eppure, i conventuali in condizioni normali hanno un convento, che nel suo interno ha sempre un chiostro, simbolo dell’eden, in cui i frati pregano in silenzio e serenità. Quando pratichiamo una disciplina, fisica e spirituale insieme, ( come lo sono in fondo tutte le discipline umane quando sono vere discipline), che ci aiuti a recuperare, almeno parzialmente, un equilibrio perduto, non stiamo affermando con questo che le vette dello spirito possano essere conquistate da un serie di tecniche: sarebbe un nuovo tentativo di costruzione della torre di Babele, ridicolo quanto blasfemo, e si cadrebbe addirittura nell’ambito della magia. Questo è spesso il timore di chi non riesce bene ad afferrare il ruolo di tali pratiche. Al contrario, stiamo solo utilizzando delle scialuppe utilissime, ma non indispensabili, che vengono spesso ( non sempre) messe a nostra disposizione gratuitamente, (ognuno consideri da chi vengano fornite). Il chiostro,  il giardino zen, ad esempio. Una particolare calamita ci attrae verso la primitiva condizione paradisiaca,( per alcuni simbolica, per altri reale) e, addirittura , come recita il  credo cristiano, ci sospinge in direzione del superamento verso l’alto di quella stessa condizione. Nulla di strano se, privati di quegli splendidi doni nell’originale caduta, cerchiamo di riappropriarcene, quando ci è concesso, almeno parzialmente. Ma non ci è solo concesso: se ci rifacciamo all’Antico Testamento, ci è persino ordinato, basta ricordarsi dell’invito del Creatore,  rivolto all’uomo, di coltivare il giardino primigenio. ( genesi 2,15” il Signore Dio prese l’uomo e  lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.”). Ricordiamoci che per i latini l’uomo era “faber”, ovvero artefice, quindi siamo anche qui in presenza di principi universali nella storia dell’uomo. Dell’ avvenimento della caduta sopra menzionat,a, ne conservano traccia praticamente tutte le Fedi e le Tradizioni  di ogni tempo nel nostro globo. Non stiamo così aggiungendo orpelli pretenziosi, applicandoci ad un’arte, ma stiamo rattoppando un originario strappo al tessuto. Se e quando possibile. Comunque, laddove sia possibile, sarebbe contro natura e controproducente non farlo, poiché sono le nostre stesse radici  a richiedere tali pratiche, che hanno, a modo e a tempo giusto, anch‘esse la loro funzione, compresa quella di ricordarci che non tutto è sofferenza e sudore, ma che il sole splende sempre, come dono gratuito, dietro qualsiasi nuvola. Tutto infatti è gratuito, a cominciare dalla nostra stessa esistenza, che non abbiamo fabbricata da noi stessi. Per concludere, aggiungerei un’ultima osservazione: paradossalmente, non si tratta di chiedersi cosa mai dovremmo farcene, nella nostra vita, della pratica di un’arte “ordinatrice” come quella che ci appassiona, ma si tratta dell’esatto contrario: cosa mai dovremmo farcene di tutto il resto della vita, se non fosse messa in ordine, direi addirittura se non divenisse un rito anche, e soprattutto, in ogni più semplice ed umile gesto, il tutto fondato sugli stessi criteri della pratica di qualsiasi vera arte, così da cercare di rendere, nei limiti del possibile, tutto il nostro agire un’opera d’arte. Il momento della pratica nel dojo, sarebbe quindi semplicemente un assaggio, un calco al quale tutto il resto della nostra vita andrebbe conformato. Ecco il senso di cui riempire, secondo me, la pratica di ogni arte,  quindi, nel nostro caso specifico, il karate; questo permetterà di non esercitarci con uno spirito di superstizione, ma di rendere vivi i nostri gesti.  Comunque, il  calco  originario su cui anche l’arte deve allinearsi , sarà, per chi ha fede, l’ascolto e la messa in pratica della Parola di Colui che ha creato, anzi, che E’, l’Ordine stesso.

CARLO  LEMBO.             Email:       lembo.carlo@yahoo.it

P.S. rito, ordine, arte, armonia, sono termini che derivano dall’indoeuropeo Rta:

(Ṛgveda, X, 133-6)

 

Ṛta (devanāgarī ऋत) è un termine sanscrito che compare nei più antichi Veda ed è fondante nella Religione vedica (o Vedismo). Con Ṛta si intende l’ “ordine cosmico” a cui soggiace l’intera realtà, ma anche una consuetudine sacra ovvero l’associazione tra il rito sacrificale e l’universo a cui esso è strettamente associato.

Il termine Ṛta deriva da Ṛ (radice sanscrita di “muoversi”) e *ar (radice indoeuropea di “modo appropriato”), quindi “muoversi, comportarsi, in modo corretto”. Così Ṛta acquisisce il pieno significato di “ordine cosmico” ovvero della Realtà che procede priva di contrapposizioni od ostacoli. Questo termine è legato, sempre per mezzo della radice indoeuropea di *ar, al termine greco harmos, da cui l’italiano “armonia”, e al latino ars da cui “arte”.

 

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