La nascita del Karate
Il Karate nasce agli inizi degli anni ’20 del secolo scorso grazie al padre fondatore Gichin Funakoshi nato nel 1868 cultore delle arti di combattimento, uomo di cultura e abile calligrafo.
La nascita del karate
Estrapolato dal libro Wadoryu karate-do kumite
La storia del karate, in assenza di documenti scritti, può essere ricostruita solo attraverso la memoria storica del karate stesso, che è rappresentata dai kata. Al giorno d’oggi, gli stili si sono moltiplicati, nuovi kata sono stati creati e altri sono andati perduti per sempre, tuttavia è ancora possibile arrivare a ricostruire frammenti di forme antiche (è comunque impossibile risalire prima della fine del 1800, l’epoca di Itosu per intenderci) grazie al confronto tra gli stili, in linea di massima, più conservativi. L’analisi sinottica e comparata dei kata, nelle loro versioni il più possibilmente antiche, permette di comprenderne l’evoluzione (ovviamente non in senso sportivo) e di capirne le logiche interne di trasformazione.
Giungere a delle conclusioni lineari è, però, praticamente impossibile. Nessun maestro rappresenta una linea pura (categoria moderna utile, ma che semplifica di molto la complessità delle genealogie e delle influenze reciproche e gli scambi tra maestri e discepoli), motivo per cui il passo successivo, la ricerca delle origini ‘cinesi’ di un kata, è impresa disperata in partenza tranne che per alcune forme importate nei primi anni del 1900 nel toudi okinawense (toudi/arte cinese è il nome che veniva dato all’arte marziale di Okinawa prima che Funakoshi, a Tokio, decidesse di regolarizzare la grafia karate/mano nuda) e di cui si conoscono la storia e maestri cinesi che li hanno importati, ad esempio sanchin (il maestro Morio Higaonna, molto attivo nel campo della ricerca storica delle radici dei kata, ha invitato vari esperti cinesi e okinawensi a dimostrare la loro versione di sanchin: il risultato di questa ricerca è consultabile al seguente indirizzo su tra cui questo)
e nipaipo (la cui versione, nepai, è messa a disposizione dal maestro Patrick McCarthy in vari video).
Nel momento in cui si hanno notizie ‘sicure’ sulle modalità di esecuzione di un kata ‘koryu (antico)’, lo stato del kata stesso è già talmente alterato da disperare di districarne la matassa di influenze e di singole innovazioni.
Tuttavia il valore della ricerca in quanto tale rimane.
Se risulta da un lato impossibile risalire alla forma archetipica, è tuttavia di enorme interesse studiare l’infinito numero di varianti e di interpretazioni, dovute ai più vari motivi, del kata stesso. Analizzare in questo senso tutti i kata di karate (impresa di una vita) assumerebbe la vastità di una enciclopedia, per quanto virtuale, e necessiterebbe di competenze specifiche che richiederebbero un team di esperti nei vari rami in cui il karate, ad un certo punto della sua evoluzione, si è diviso. Proprio per questo motivo, e per sondare la fattibilità di un progetto ambizioso seppure ancora in nuce[1], sono state indagate approfonditamente le radici storiche sia dei 9 kata principali dello stile wadoryu (i 5 Pinan, Kushanku, Naihanchi, Seishan, Chinto, nell’ordine didattico voluto da Otsuka stesso), sia dei restanti kata dello stile considerati come utili ma non fondamentali (Bassai, Niseishi, Wanshu, Jion, Jitte, Rohai) nelle versioni praticate ed elaborate dal Maestro Otsuka almeno negli anni 1960-70 (anni a cui risalgono il maggior numero delle testimonianze multimediali disponibili su Otsuka, e che testimoniano se non altro il processo finale dell’elaborazione del suo personalissimo stile). Alcuni di questi kata hanno il pregio di essere anche tra i più antichi e tra i più trasversali del karate, cosa che ha permesso un lavoro di approfondimento che ha interessato le radici stesse dello shorin-ryu da cui il wado-ryu deriva (almeno per la parte specifica del karate).
Nel sistema di trasmissione delle arti marziali orientali, ma non solo, il kata è lo strumento principe. Ad Okinawa, è solo tramite il kata e la sua interpretazione, trasmessa in segreto da maestro ad allievo almeno fino alla fine del XIX secolo, che si è perpetuato il Toudi, la tradizionale marziale indigena frutto della fusione tra tecnica di lotta autoctone e influssi cinesi e giapponesi, che poi verrà ribattezzato karate. Ma il kata è un sistema d’apprendimento ritualizzato che, nella cultura orientale, non è prettamente relativo solo al mondo delle arti marziali anzi permea, per così dire, ogni attività umana, fino alla sfera psicologica e comportamentale. Il kata ha sempre avuto importanza primaria nel Toudi e poi nel karate, e almeno fino ai primi anni del 1900 nessun maestro si è mai posto il problema di completare, per così dire, l’insegnamento dei kata con altri esercizi. La trasmissione dei segreti delle arti marziali, fino alla riforma Meiji e prima che il sistema scolastico okinawense venisse riformato con l’inclusione del Toudi come forma di educazione fisica nell’insegnamento scolastico, era da maestro ad allievo, e anche i più noti maestri non avevano che una manciata di allievi[2]. La trasmissione era dunque prettamente personale e personalizzata e probabilmente gli allievi avevano modo di sviscerare ogni singolo aspetto non solo del kata studiato, ma anche egli aspetti più interiori dell’arte[3]. Le cose iniziarono a cambiare quando il karate iniziò ad essere insegnato nelle scuole elementari e superiori, quindi ad un numero incomparabilmente più alto di persone riunite allo stesso luogo e soprattutto non più come scelta personale del singolo o a discrezione del maestro, ma come materia d’insegnamento ufficiale. Una didattica prima inesistente (in quanto cosa, come e a chi insegnare era decisione del singolo maestro) venne creata, per così dire, dal nulla, ossia venne adattata dalle altre arti marziali presenti ad Okinawa come judo e kendo. Autore di questa rivoluzione fu Ankō Itosu, che per l’occasione creò i cinque kata Pinan, probabilmente i kata più noti e praticati oggi nel mondo intero. Con questo sistema didattico, ovviamente molto venne perso (anche se in realtà non è possibile sapere con certezza cosa), molto venne aggiunto e soprattutto i kata antichi vennero in un certo senso semplificati e linearizzati. Molto si è discusso sul ruolo di Itosu in tutto questo processo. La straganza maggioranza degli studiosi, per lodandone l’operato didattico e l’importanza avuta da lui come insegnante (praticamente sono tutti suoi gli allievi che hanno contribuito alla diffusione del karate ad Okinawa, in Giappone e poi mondo), concordano nel ritenerlo responsabile della destrutturazione del karate antico, di aver causato la perdita degli antichi kata, di averne alterato la forma causandone ovviamente la perdita del bunkai originario. Troppo colpe per un solo uomo, per altro molto influente. Come che sia, il Toudi si stava preparando ad attirare l’attenzione del Giappone, e al momento della chiamata, fu pronto a rispondere e a guadagnarsi il posto nel panorama della arti marziali orientali più famose.
Questione di nomi…
Fino ad oggi nessuno è stato in grado, se non con la fantasia, di scoprire il reale significato dei nomi di alcuni kata di karate, soprattutto della linea shuri-te. Non si tratta solo di un problema di lingua o di kanji: il problema è molto più complesso; il reale significato dei nomi dei kata era ignoto anche ai maestri ‘antichi’. Un’autorità indiscussa nel mondo dei kata, Kenwa Mabuni, scrive (cfr. Mabuni-Nakasone 2002 pp. 59ss., traduzione mia): oggi esistono circa una trentina di kata. L’origine dei nomi è confusa o perduta definitivamente […] il kanji che designa il kata Naifanchi (nai ‘dentro’ he ‘camminare’ sin ‘avanzare’) ha per caratteristica la posizione del cavaliere a cavallo. Alcuni la confondono con la posizione kiba-dachi, ma la posizione naifanchi guarda con la punta dei piedi all’interno […] il nome del kata Bassai all’inizio non aveva significato, ora si usa[4] il kanji che indica “assaltare la fortezza”. Stessa cosa vale per il kata Rohai: prima non aveva significato, ora indica l’airone. Il reale significato di Kushanku, Bassai, o Wanshu, Naihanchi o Chinto per esempio, resta, dunque, un mistero. Potrebbe trattarsi, secondo il celebre karateka e ricercatore Shingo Ohgami, di nomi originali cinesi il cui suono sarebbe stato okinawaizzato col passare del tempo fino a perdere ogni riferimento con l’originale. Sta di fatto che Funakoshi stesso non è in grado di fornire l’esatta etimologia dei nomi dei kata da lui praticati per il fatto che nessuno, prima della diffusione del karate in Giappone, aveva sentito la necessità di scrivere il kanji relativo al nome del kata, essendo la trasmissione essenzialmente orale (da qui la necessità anche ‘politica’, almeno per Funakoshi, di ribattezzare alcuni kata). A quasi un secolo di distanza dalla prima introduzione del Toudi in Giappone e dai primi documenti scritti in nostro possesso su questa arte, e nonostante ricerche e approfondimenti, il risultato non è cambiato affatto: la recente pubblicazione del libro di testo dello stile Seibukan[5], le cui origini vanno rintracciate nel tomari-te di Chutoku Kyan, conferma questo ‘vuoto’. Nemmeno Kyan conosceva il significato dei nomi dei kata da lui insegnati, di conseguenza non lo ha trasmesso ai suoi allievi. Tutti i tentativi di dare un significato ai nomi dei kata, si rivelano pure congetture[6]. Il discorso è notoriamente diverso per i principali kata di area naha-te che, come è noto, indicano semplicemente (almeno nel senso della traduzione, ma cosa indichino realmente non è perspicuo) dei numeri: così il san di Sanchin equivale a 3, Seipai a 18, ossia 3×6, Sanseiru a 36, ossia 3×12, e Suparimpei a 108 ossia 3×36.
[1] Qualcuno ha già iniziato a percorrere questa strada e cfr. il volume Estudio tecnico comparado de los kata de karate di Hermenegildo Camps e Santiago Cerezo, Editorial Alas 2005, che confronta, tra gli stili principali giapponesi e alcuni okinawensi, la maggior parte dei kata oggi praticati, con l’unica pecca di non considerare le versioni originali dei kata ma, almeno in alcuni, già le derivazioni sportive o le sottoscuole.
[2] Il numero degli studenti non era certo direttamente proporzionale alla bravura o alla fama del maestro, ma solo alla sua disponibilità o inclinazione ad insegnare. Matsumura ha senz’altro avuto numerosi allievi, in virtù del fatto di essere stato la guardia personale del re di Okinawa, almeno fino al 1868, e anche dopo avrà modo di istruire tutti i rampolli dei nobili okinawensi ormai decaduti. Tra i suoi allievi, il più prolifico è stato senz’altro Ankō Itosu, la cui inclinazione e predilezione all’insegnamento lo hanno portato ad essere il vero padre del karate moderno. Azato, la cui abilità non era certo minore di quella di Itosu, anzi data la sua nobiltà era probabilmente anche marzialmente più versatile di Itosu, non ha lasciato eredi eccezion fatta per Gichin Funakoshi. Hanashiro Chomo e Kentsu Yabu hanno studiato con Matsumura e con Itosu e hanno collaborato nella diffusione del karate nelle scuole okinawensi, ma non hanno lasciato una scuola strutturata. I loro insegnamenti rimangano nei kata che hanno trasmesso e nei ricordi di coloro che hanno avuto l’onore di averli come maestri. Hanashiro Chomo ad esempio ha avuto trai suoi allievi Kinjo Hiroshi, che a sua volta è il maestro del noto studioso Patrick McCarthy, fondatore del Koryu Uchinadi.
[3] Così racconta Funakoshi: “ma dopo aver terminato la nostra lezione, di solito alle ore piccole, Azato diveniva un nuovo maestro. Allora parlava dell’essenza del karate o, come un padre affettuoso, mi chiedeva della mia vita come insegnante”, cfr. G. Funakoshi, Karate Dō, il mio stile di vita, Edizioni Mediterranee 1987, p. 22.
[4] Mabuni non lo dice espressamente, ma intende dire che è stato Funakoshi a proporre questa interpretazione.
[5] L’opera è il frutto della divulgazione di Zenpo Shimabukuro, uno dei migliori maestri Okinawensi in circolazione, il cui padre è stato per più di dieci anni allievo diretto di Chutoku Kyan, e cfr. Shorin Ryu Seibukan. Kyan’s Karate, by Shimabukuro and Smith, Coal Mountain Productions 2012.
[6] La situazione di incertezza è tale che il nome del kata inventato da Zenryo Shimabukuro, il padre di Zenpo, con la collaborazione del figlio, è anch’esso privo di significato. Il nome Wanchin è stato scelto per l’affinità coi nomi dei kata Wanshu e Chinto (Shimabukuro p. 247).